domenica 16 settembre 2012

Ki-duk Kim

Crocodile (악어 - Ag-o) (1996)
Wild Animals (야생동물 보호구역 -Yasaeng dongmul bohoguyeog) (1996)
Birdcage Inn ( 파란 대문 - Paran daemun) (1998)
Real Fiction ( 실제 상황 - Shilje sanghwang) (2000)
L'isola ( 섬 - Seom) (2000)
Indirizzo sconosciuto (수취인 불명 - Suchwiin bulmyeong) (2001)
Bad Guy ( 나쁜 남자 - Nabbeun namja) (2001)
The Coast Guard ( 해안선 - Haeanseon) (2002)
Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera ( 봄여름가을겨울그리고봄 - Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom) (2003)
La samaritana ( 사마리아 - Samaria) (2004)
Ferro 3 - La casa vuota ( 빈집 - Bin-jip) (2004)
L'arco ( 활 - Hwal) (2005)
Time ( 시간 - Shi gan) (2006)
Soffio (숨 - Soom) (2007)
Dream ( 비몽 - Bimong) (2008)
Arirang (아리랑) (2011) - 3,5/5
Amen (아멘 - A-men) (2011)
Pietà (피에타 - Pietà) (2012) - 3/5
Moebius (뫼비우스 - Moibiwooseu) (2013) - 2,5/5

Kim (1960), è uno dei più noti registi della Corea del Sud. A partire da L'isola (2000) i suoi film hanno fatto incetta di premi nei principali festival internazionali, anche se in patria sembra essere meno apprezzato. Ritiratosi dall'attività per 3 anni dopo il 2008, ha filmato la sua crisi creativa ed esistenziale in quello che è diventato l'interessante documentario Arirang (2011). Dopo un film a budget ridottissimo (Amen, 2011), che è stato visto unicamente al festival di San Sebastián e che nessuno ha distribuito, è tornato in attività con Pietà (2012), vincitore del Leone d'Oro a Venezia.

-Arirang
Coread del Sud 2011 - docufiction - 100min.

I primi minuti mostrano visioni frammentarie di Kim Ki-duk che cammina, mangia, vive nella catapecchia di montagna. Le prime parole sono pronunciate a 9.20; Kim inizia il suo monologo con un “ready?Action!” che rimanda all'ambivalente natura dell'opera: un po' documentario un po' film di fiction, mettendo in luce quello che sarà uno dei temi cardini del film, l'oscillazione tra cinema e vita, tra realtà e finzione è un confine labilissimo. Kim spiega che si trova lì da 3 anni, e si è autorelegato in quel luogo a seguito di un incidente sul set di Dream che è quasi costato la vita ad un'attrice; questo fatto, unito all'abbandono del regista suo seguace Jang Hoon, che ha diretto un film basato su uno script di Kim ma mentre già fervevano i preparativi per un film successivo, Poongsan, Hoon ha invece accettato proposte da produttori mainstream senza avvisarlo, voltando quindi le spalle al regista mentore che aveva già pronto lo script del film. Questi due fatti hanno gettato Kim in una profonda crisi creativa ed esistenziale che l'ha reso incapace di fare ulteriori film, sebbene lui stesso insista sul fatto che non può vivere senza fare cinema. Ecco perchè decide di realizzare Arirang (nome di una canzone folk coreana che canta di tanto in tanto durante il film). Il film è un mix di realtà e fiction: prende dal cinema alcune regole di messinscena, come il campo controcampo, o i raccordi di sguardo e movimento, ma li mette al servizio di sé stesso in una sovrapposizione di stati attore/autore del film. Questo perchè il suo scopo non è fare un film in cui mettersi in mostra, ma semplicemente fare un film su qualcosa, e dato che lui è l'unico uomo presente lo fa su di sé. Ma è un sé “fictionalizzato”, non semplicemente esposto ad un documentario celebrativo.
Kim dice di aver comprato una reflex Mark II per realizzare questo film: il cinema digitale è quindi indispensabile a questo tipo di racconto intimo ed autorappresentativo. E' come se Kim non fosse in grado o non volesse esprimersi al di fuori del mezzo cinematografico; insomma invece di scrivere ad esempio una lettera aperta ad un giornale o un video su youtube in cui indicava le ragioni del suo autoesilio ha deciso di realizzare un film a tema, interamente da solo, quindi girandolo con una reflex e montandolo con un Mac. Lo stesso Kim is premura di far passare questo concetto allo spettatore, quando, dopo aver pianto sconsolatamente, si chiede (ci chiede) se quel pianto non fosse stato un artificio, un escamotage melodrammatico per coinvolgere emotivamente lo spettatore. Sembra esserci tra l'altro una sottile autocelebrazione nella riproposizione dei manifesti dei suoi 15 film precedenti e nei premi vinti, cosa che viene ribadita 2-3 volte nel corso del film. C'è quindi una scissione tra il Kim ki-duk regista/attore ed il Kim ki-duk essere umano completo: quello raffigurato nel film è il Kim attore che interpreta sé stesso, e ciò è evidente nel finale che rientra appieno nei canoni cinematografici del thriller o del noir, insomma torna ad essere cinema di fiction al 100% ed infatti corrisponde alla fine dell'esilio personale dell'autore e quindi anche alla fine del film.

Frasi notevoli:
“Tu che mi fai le domande...anche tu sei Kim Ki-duk. Non il Kim Ki-duk di adesso. Sei il Kim Ki-duk spontaneo che sta guardando la mia vita...Grazie dell'occasione che mi dai di parlarne”: esemplifica la scissione sovramenzionata tra entità autoriale ed attoriale. Kim ringrazia l'esistenza del cinema che consente anche queste forme estreme di autorappresentazione, ed in generale consente di mettere in scena storie di fiction che rimandino a significati profondi che l'autore vuole comunicare.
“Ho letto che negli ideogrammi cinesi la parola [Arirang] significa auto.affermazione.” Al di là se sia vero o no, questo spiega il titolo del film: Arirang è il film in cui Kim si riafferma come uomo di cinema, è come una resurrezione, una seconda vita, che prelude ai film successivi, carichi di misticismo.
La sequenza del canto in lacrime e la seguente inquadratura della risata rafforzano i concetti sovramenzionati.
“Ora la mia vita è un documentario ma è anche un film drammatico. Ora l'attore sono io(...) Mi sto riprendendo come si farebbe in un film drammatico. Alcuni lo definirebbero un documentario, ma credo sia un dramma. Essendo uno scrittore penso continuamente a come rendere il film più drammatico, anche ora. Forse prima ho pianto per drammatizzare maggiormente le emozioni” sono tutti avvertimenti: quello cui assiste è un film di fiction, anche se ha molti agganci al vissuto reale del regista.

Voto: 3,5/5

-Pietà
Corea del Sud 2012 - drammatico - 104min.

Gang-do (Lee Jung-jin) è uno strozzino che storpia i clienti che non pagano, per incassare i soldi delle loro assicurazioni. Un giorno gli si presenta a casa una donna di mezza età che dice di essere la madre che l'aveva abbandonato da piccolo, e di essere tornata ora per occuparsi di lui e farsi perdonare. da uomo abbietto e crudele che è, Gang-do non ne vuol sapere di tenerla in casa, ma col tempo finirà per accoglierla ed affezionarcisi. Le cose però iniziano a prendere una brutta piega quando la donna scompare misteriosamente....

Da cattolico quale è, Kim si interroga sull'assenza di pietà nell'essere umano, insinuandosi nella vita di un comune criminale di bassa lega, totalmente amorale ed incurante del dolore che provoca, che si appresta a subire un castigo commisurato ai suoi delitti. Tornando a quella disperata crudezza che connota i suoi primi film (Crocodile, Real Fiction, L'isola...), ha realizzato un film dai toni cupissimi incentrato su una lugubre vicenda di squallore umano: ambientato in vecchio quartiere popolare assimilabile ad una baraccopoli africana o ad una favela sudamericana, il film mette in scena vite insignificanti di gente misera che campa con due soldi in mezzo a sporcizia e indigenza. Rifiuti della società che nessuno vuole, esistenze inutili che per sopravvivere si appoggiano ad una mano che sembra amica ma che in realtà è carnefice: l'usura. In questo contesto Gang-do è vissuto tutta la sua vita, perciò è portato ad una specie di atrofia di umanità che non gli permette di provare compassione o comprensione verso chi se la passa (non molto) peggio di lui.

Due gli unici momenti di pietà in tutto il film: una breve inquadratura dal basso del volto piangente della madre poco prima dell'attuazione del suo misterioso piano (e del conseguente colpo di scena finale), che prova pietà per Gang-do; e lo sconsolato finale, in cui è forse lo spettatore a provare pietà per il protagonista, capace solo alla fine, quando ormai tutto è perduto, di sperimentare, attraverso il dolore più profondo, le emozioni, i sentimenti e gli atti volitivi (in questo caso fare ammenda per i torti inflitti agli altri) che elevano l'uomo a qualcosa di più degli altri animali. Girato e montato un po' forsennatamente con telecamera a mano e sempre un pò mossa, pecca di enfasi in diversi momenti (reiterate scene di pianti) e di eccessi (le interazioni erotiche tra i protagonisti) che finiscono per depotenziare il film, il quale sarebbe stato ancor più incisivo con un registro più asciutto.

Alcune dinamiche narrative inoltre sono retaggio di opere precedenti del regista (specie la narrazione a tappe che rimanda in primis a La samaritana).

Voto: 3/5

-Moebius
Corea del Sud 2013 - drammatico - 90min.

Una donna scopre l'adulterio del marito; per punirlo tenta di evirarlo ma non ci riesce, allora evira il figlio e ne ingurgita il pene. Da questo incipit arriva una concatenazione di eventi ancor più efferati. Dopo la crisi creativa di Arirang che aveva portato il regista a sfociare in un dittico di chiara ispirazione cristiana, stavolta Kim Ki-duk si sposta decisamente sul versante buddista della concezione del mondo: alal abse di tutto c'è il desiderio (la libido, direbbe Freud), inevitabilmente portatrice di dolore e violenza. Per spezzare il circolo di con-cause (il nastro che dà il titolo al film) bisogna eliminare il desiderio alla radice, che non è il pene come avviene all'inizio del film, ma è la vita stessa. Caso raro di autore che raggiunge il nichilismo più assoluto in età avanzata, andando oltre le efferatezze rappresentate nei suoi primi film e levigate nella fase centrale della sua carriera (che è sì stata la più "mainstream", ma anche quella capace di donarci un capolavoro assoluto come Ferro 3), Kim Ki-duk sembra non essersi più ripreso psicologicamente dal trauma subìto sul set di Dream (l'aver quasi causato la morte di un'attrice). L'unico caso di nichilismo così estremo che mi viene in mente è Tabù, ultimo film di Nagisa Oshima, che comunque si esimeva dalla violenza grafica. Moebius è talmente efferato da respingere lo spettatore, e lascia perplessi circa la sua evoluzione tematica e stilistica, tanto che vien da chiedersi se in effetti non si tratti di un'involuzione: la rinuncia al dialogo, la messinscena spartana, la camera forsennatamente a mano con il video non stabilizzato, mi porta a chiedermi se la prossima volta Kim non sceglierà di fare un film composto da un'unica camera fissa che riprende una stanza vuota. Si sta insomma avvicinando al non filmabile, forse a quella condizione di nirvana che i suoi personaggi disperatamente cercano e che lo porterà ad annullare ogni desiderio di fare cinema - o peggio, al pubblico di vedere il suo cinema.

Voto: 2,5/5

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